Centottanta miglia a nord del Puget Sound

Il mare era nero come la lava di un vulcano, duro e implacabile. Le onde del Pacifico si sollevavano verso ovest, spazzando via al loro passare tutto ciò che incontravano, compresa la Suzy’s Pride, una pesante barca per la pesca con la sciabica. Era vecchia di trent’anni e si era avventurata ben oltre i suoi limiti, andando a cercare il pesce così lontano che il suo radar antiquato non rilevava più la linea di costa. Era notte fonda, il riflusso della marea raggiungeva il punto più basso: l’ora in cui solo i disperati non dormono. Steve Hanscom aveva navigato per quasi settanta ore rincorrendo un branco di spigole sperando che lo portassero a un grande branco di sardine del Pacifico, ma era così sfigato che entrambe le possibili prede erano state disperse da un gruppetto di orche che avevano deciso di seguire la sua barca.

All’inizio si era divertito a mostrare i cetacei assassini a suo figlio, ma ora Hanscom malediceva quei mammiferi capricciosi che si erano incollati alla Suzy’s Pride. Pescatore di quarta generazione, consapevole che la quinta non ci sarebbe stata, Hanscom si ostinava comunque a tentare di guadagnarsi da vivere con quel mare che aveva sostentato la sua famiglia dalla metà del secolo scorso. Con un mutuo sulla barca, uno sulla casa e un’automobile che beveva più olio che benzina, sapeva fin troppo bene quanto per lui e per la sua famiglia fosse importante una pesca abbondante. Due, forse tre passaggi in mare aperto, fuori dal mare interno del Puget Sound… e se non tornava con le reti gonfie sarebbe andato in fallimento.

Era per quello che Steve aveva tolto suo figlio da scuola per un mese e lo aveva portato a lavorare sulla barca. In quelle poche settimane da trascorrere insieme Steve sperava che il ragazzo imparasse cosa significa lavorare in proprio e instillargli l’orgoglio che suo padre aveva insegnato a lui. Nel giro di qualche mese, in primavera, Steve sarebbe diventato un altro lavorante che metteva il suo tempo al servizio di qualcun altro, e Dio solo sapeva quanto gli costava.

Sarebbero stati in parecchi a rimanerci male se Steve avesse definitivamente perso la barca, e soprattutto George Boudette, il ruvido lupo di mare che sapeva sulla pesca più cose di chiunque altro, ma Steve si preoccupava soprattutto per suo figlio. Josh era cresciuto nel mondo della pesca. Erano le questioni economiche e la dura realtà dell’eccessivo sfruttamento del Pacifico nord-occidentale che lo stavano costringendo ad abbandonare il suo lavoro, ma Steve ce l’aveva soprattutto con se stesso perché non sarebbe riuscito a trasmettere quell’eredità che aveva a sua volta ricevuto. Lo considerava un fallimento personale.

La ruota del timone girava senza sforzo sotto il tocco delicato di Steve Hanscom sulla superficie di rovere resa liscia dal contatto di intere generazioni. Stava in piedi da solo alla timoneria da quando avevano lasciato Seattle e guardava l’ecoscandaglio sperando di vedere lo sciame di sardine passare di nuovo sotto la barca, invitandolo a gettare la sciabica da poppa.

“Ti do il cambio.” La voce penetrò nella sua intimità e lo colse di sorpresa, e Steve strinse più forte sulla ruota del timone.

Si voltò. “No, grazie, Georgie, cerca di dormire un po’.”

“Ho ottant’anni. Non ho più bisogno di dormire. Ho già dormito abbastanza in attesa che arrivi il grande sonno.” Gli occhi di George Boudette brillavano di quell’ultima scintilla di vita, come una lampadina che diventa improvvisamente più luminosa prima di bruciarsi e spegnersi per sempre. George aveva navigato con Steve, con suo padre e, da bambino, con suo nonno.

“Come sta Josh?” chiese Steve. Il ragazzo era sottocoperta.

“Addormentato davanti alla radio come l’aiutante di Marconi” disse George affettuosamente. “Non avresti dovuto mandarlo a letto e contemporaneamente dirgli di ascoltare il bollettino. Ha preso il tuo secondo ordine molto più seriamente del primo.”

“Non tireremo su niente, quindi è meglio che abbia la sensazione di aver fatto qualcosa. Ascoltare le chiacchiere dei mercantili in rotta verso Seattle è meglio che stare a sedere sul ponte a girarsi i pollici.”

“Prima dell’alba troveremo il pesce” dichiarò George con insindacabile ottimismo.

Sottocoperta, Josh Hanscom si stava svegliando di nuovo, con addosso la stessa eccitazione che lo aveva assalito quando suo padre gli aveva detto che per quel mese non sarebbe dovuto andare a scuola. Era come la mattina di Natale, nella pace delle ore che precedevano il risveglio dei suoi genitori, ma con un’emozione ancora più forte. Gli avevano affidato un lavoro. Suo padre gli aveva detto di stare in ascolto alla radio e quello era esattamente quello che Josh intendeva fare. Non aveva capito che quell’incarico era più una scusa per tenerlo occupato che una reale utilità.

Vergognandosi per essersi addormentato nel bel mezzo del suo incarico, Josh si strofinò gli occhi e sbadigliò prima di concentrarsi sul ricetrasmettitore. Erano tre giorni e tre notti che indossava gli stessi vestiti, e come suo padre aveva preso l’abitudine di spruzzarsi del deodorante sotto le ascelle appena si svegliava. Josh imitava persino la faccia che faceva suo padre quando sentiva lo spruzzo gelido sulla pelle tiepida. Si accinse a girare tra le varie frequenze per cogliere qualsiasi indicazione che potesse essere utile a suo padre per trovare il pesce. Premeva i pulsanti con le sue dita delicate così abilmente che se non si prestava particolare attenzione non si sentiva la differenza tra il fruscio di una frequenza e quello della successiva.

Lo mancò per un pelo. Senti gracchiare nella banda più bassa del VHF, un rumore bianco diverso dal disturbo di sottofondo, ma nel contempo così simile che Josh quasi non lo sentì. Tornò indietro e lo sentì di nuovo. Qualcuno stava trasmettendo, ne era certo, ma il segnale era troppo distante per riceverlo con chiarezza. Era un rumore confuso, uno schiamazzo nervoso simile a quello che i suoi compagni più grandi chiamavano musica. Non sapendo cosa poteva significare captare un segnale a 2182 Hertz, Josh ascoltò attentamente fino a che una voce emerse dal fruscio. “Mayday, Mayday, Mayday. Qui è la superpetroliera Southern Cross, a tutte le unità in ascolto.”

Scioccato, Josh si precipitò sul ponte gridando “Papà, papà!”

“Aspetta Jakey,” rispose Steve Hascom usando il soprannome di Josh. Era in piedi curvo sul sonar con George Boudette e teneva la ruota del timone senza bisogno di guardare il mare con la mano segnata dalle cicatrici.

“Hai visto quanto ce n’è?” disse George strabiliato, nonostante tutti quegli anni passati in mare. “Non ho mai visto un branco così grosso.”

“Cazzo, Georgie, abbiamo trovato una miniera d’oro.” Steve si raddrizzò e si girò verso suo figlio. “Jake, vai a chiamare gli uomini, c’è un po’ di pesce da tirar su.”

George Boudette mise le macchine al minimo, girando la ruota in modo che la Suzy’s Pride disegnasse un ampio arco attorno all’enorme massa di pesce che nuotava subito sotto la superficie, fuggendo all’impazzata dai branzini che sfrecciavano affamati in mezzo al branco. Steve si allontanò dal sonar, fiducioso che George avrebbe gestito tutte le operazioni sul ponte mentre lui e gli altri due marinai si preparavano a gettare la rete attorno al branco di sardine.

“Ma, papà” insistette Josh, “ho appena sentito una chiamata di emergenza alla radio, era sul canale 2182.”

Gli ci volle qualche secondo per realizzare quello che suo figlio aveva appena detto. “Hai captato una chiamata sul 2182? Sei sicuro?” All’improvviso l’eccitazione per il branco di sardine cominciò a vacillare.

“Sì, c’era un uomo che diceva Mayday e tutto il resto” rispose Josh eccitato, ignaro delle conseguenze di quello che aveva appena riferito.

“Preparatevi a buttare le reti” gridò George, totalmente concentrato sul compito di portare il bottino in superficie riempiendo il mare attorno a loro con quel numero impressionante di pesci.

Steve esitò, guardando il faccino ansioso di suo figlio, e voleva disperatamente credere che il ragazzo non aveva affatto sentito una chiamata di emergenza sul 2182, una delle frequenze internazionali per le chiamate di emergenza. Doveva prendere una decisione entro pochi secondi, o il branco si sarebbe disperso.

“Le reti!” gridò verso il ponte agli uomini già pronti a eseguire gli ordini, allertati da George Boudette che li aveva svegliati pestando violentemente i piedi sul ponte sopra la cabina in cui dormivano.

La rete venne calata da poppa con la sola forza delle braccia, lunga decine di metri e fitta di galleggianti e di piombi. La discesa delle reti era perfettamente sincronizzata con il ritmo del motore e con l’ampio cerchio che la barca stava disegnando nell’acqua. La rete scivolò lungo il perimetro del branco per catturare il maggior numero possibile di pesci.

In genere Steve rimaneva sul ponte ad assistere alla calata della costosissima rete per controllare che non si impigliasse mentre scendeva nelle acque del Pacifico, ma quella volta prese suo figlio per mano e ricondusse il confuso ragazzino in cabina, dove c’era lo scaffale su cui era montata la radio.

“Fammi vedere” gli disse a denti stretti, con il corpo che quasi tremava.

Spaventato, Josh accese la vetusta Motorola, evitando lo sguardo di suo padre mentre aspettava che l’apparecchio si scaldasse e che il display si illuminasse. Scorse le frequenze, fermandosi su 2182 MHz. Dall’altoparlante uscì solo rumore bianco. Steve riprese a respirare normalmente, ringraziando tra sé per l’errore di suo figlio. Non c’era niente là fuori, nessuno stava chiedendo aiuto.

Se ci fosse stata un’emergenza, la legge del mare diceva che le vite umane vengono prima di qualsiasi altra valutazione. Steve sarebbe stato costretto a tagliare le reti che venivano calate in quel momento da poppa e spingere la barca a velocità massima per prestare soccorso. E in quel caso poteva scordarsi di trovare i soldi necessari a rimpiazzarle. Ma Josh si era sbagliato. Non c’era niente là fuori, e Steve doveva tirare su il pesce.

Stava per spegnere la radio quando una voce uscì dagli altoparlanti, forte e chiara, così vicina che sembrava che la persona che parlava fosse in cabina con loro.

“Mayday, Mayday. Sono il capitano della superpetroliera Southern Cross. Questa è una chiamata di emergenza per tutte le unità in ascolto. Mayday, Mayday.”

Hanscom sentì gelarsi il sangue nelle vene. Non era la perdita della sua vita a spaventarlo. Era il messaggio in sé. Ne sapeva abbastanza sulle navi da sapere che una superpetroliera non è una barchetta che naviga sottocosta, ma uno di quei giganti che navigano tra l’Alaska e la California. Ricordava le ore trascorse davanti al televisore per seguire in diretta il disastro della Exxon Valdez. Se uno di quei mostri aveva un buco nella pancia e cominciava a vomitare il suo veleno nelle vicinanze del Puget Sound, Hanscom sarebbe diventato uno delle migliaia di pescatori che avrebbe perso il lavoro per sempre.

Steve ci mise meno di un secondo a prendere la sua decisione, perché di fatto non aveva scelta. Non era solo perché aveva l’obbligo di prestare soccorso alla petroliera che aveva lanciato il Mayday, ma anche perché voleva farlo. Se in qualche modo poteva prevenire una catastrofe, e magari salvare le acque del Sound, non avrebbe esitato a tagliare le reti e a precipitarsi a prestare tutto l’aiuto possibile.

“Josh, di’ a Paul di tagliare le reti e a George di dare potenza ai motori” disse Steve soffrendo. Se tutto questo significava perdere la barca, era sicuro che non sarebbe stato invano. Controllò i dati sullo strumento di rilevazione della direzione e calcolò rapidamente la rotta. “E di’ a George di mettere il timone su 342 gradi e di spingere al massimo i motori.”

Josh corse fuori dalla cabina gridando eccitato con la sua voce squillante ma autoritaria come quella di chi ha una missione da compiere. Steve afferrò il microfono. “Qui è il capitano del motopeschereccio Suzy’s Pride, vi ricevo male. Amplificate il segnale, sto facendo rotta verso di voi a tutta velocità. Verificate la vostra posizione e descrivete l’emergenza.”

Un’onda di sollievo assalì Lyle Hauser con la stessa intensità di un orgasmo. “Grazie a Dio, capitano. Temevo di essere troppo lontano dalla costa per essere captato prima di una decina di ore. La mia nave è stata sequestrata da un gruppo di terroristi che avevano dei complici tra i membri del mio equipaggio. Sono alla deriva in un canotto di salvataggio a circa duecentocinquanta miglia a nord-ovest di Bellingham. Non sono in grado di fornire una posizione più precisa.”

Steve pensò di essere incappato in un film sul genere de Gli ammutinati del Bounty. Una nave sotto sequestro e il capitano alla deriva su una scialuppa? Era l’alba del ventunesimo secolo, eventi di quel genere non succedevano più. Era difficile crederci. E se fosse stato uno scherzo di pessimo gusto?

La Suzy’s Pride si trovava fuori dalla portata di qualsiasi postazione radio costiera, e gli strumenti dicevano che il segnale proveniva da un qualche punto in mare aperto. Poteva essere tutto vero. Mio Dio, pensò, un branco di terroristi che tenevano in pugno una superpetroliera?

“Deve trasmettere un massaggio alle autorità” continuò la voce che usciva dall’altoparlante, “ma per nessun motivo la notizia deve giungere ai proprietari della mia nave. Ho il sospetto che siano complici dei terroristi.”

“Non capisco. Prego ripetere l’ultima comunicazione. Capitano, non sono in grado di trasmettere a terra, i miei strumenti non sono abbastanza potenti. Raggiungerò la sua posizione in qualche ora.” Steve sentì la barca che accelerava.

“Negativo. Raggiunga la costa nel più breve tempo possibile e informi la guardia costiera. Devono fermare la Southern Cross. A quest’ora dovrebbe trovarsi non lontano da Seattle e ho il sospetto che vogliano distruggerla all’interno del Puget Sound.”

Steve accese le luci della cabina e tirò fuori una carta nautica dal vano sotto la radio. La srotolò, fissò gli angoli con due tazze vuote e un manuale di navigazione che aveva usato poco prima per istruire Josh, e prima di rispondere fece qualche calcolo.

“Capitano, sono a metà strada tra Port Hardy e Bamfield, British Columbia. Posso venire a prenderla e raggiungere la costa senza allungare i tempi. Posso raggiungerla nel giro di…” Steve calcolò la distanza approssimativa basandosi sull’intensità del segnale e sulla potenza della sua radio, tenendo conto anche delle condizioni atmosferiche, “cinque ore, e dopo altre tre ore potremo entrare in contatto radio con Port Hardy. È il massimo che posso fare.”

“Ricevuto, capitano” rispose Hauser, rendendosi conto che probabilmente le onde lo avevano spinto molto più al largo di quanto pensava e di quale fortuna avesse avuto a trovare qualcuno in ascolto a quell’ora e in quelle acque così poco battute. Erano a quasi duecento miglia dalla rotta più vicina.

“Terremo monitorata la frequenza fino a che non entreremo in contatto visivo. Qui Suzy’s Pride, chiudo.”

Steve rimise il microfono sulla base.

Risalì in coperta, dove George Boudette stava in piedi dietro al timone, cavalcando le onde che stavano cominciando a picchiare contro la prua tozza del peschereccio. Josh era in piedi accanto a lui. Steve notò che George aveva tirato indietro le due leve dei motori a qualche centimetro dalla posizione di massima potenza. Si avvicinò e le spinse a fine corsa. I motori diesel da sotto il ponte risposero con un muggito e la barca si mise a vibrare. Navigare a quella potenza per più di qualche ora avrebbe causato danni irreparabili ai motori e agli alberi di trasmissione delle eliche.

“Se alla fine di questa storia la mia barca deve finire nelle grinfie della banca, voglio essere sicuro che non sia in condizione di essere utilizzata.”